I migranti sono un vettore di cambiamento sociale e culturale delle società che, volenti o nolenti, li accolgono. Non cambiano gli aspetti fondamentali, come la lingua, il calendario, l’architettura istituzionale, le norme costituzionali, ma si sviluppano fenomeni inediti, talvolta inattesi, soprattutto in ambito urbano. L’esempio di Londra è particolarmente significativo: un tempo era la città più secolarizzata del Regno Unito, mentre oggi è la più religiosa, punteggiata di chiese, sale di preghiera, moschee, templi, soprattutto nelle sue vaste periferie popolari. Il pluralismo religioso è uno dei principali apporti socioculturali dell’immigrazione, e in un Paese quasi monoreligioso come il nostro questo è un aspetto particolarmente rilevante.
Valutare le dimensioni della presenza di religioni minoritarie non è agevole, giacché si tratta di entrare nell’ambito delle convinzioni personali e delle pratiche religiose effettive. Si può fare una stima per l’Italia sulla base dei Paesi di provenienza dei migranti, da cui si delinea una mappa in cui spiccano nell’ordine i musulmani (1.700.000), i cristiani ortodossi (1.500.000), i protestanti di varie denominazioni (oltre 200mila), gli induisti (160mila), i buddhisti (120mila), i sikh (90mila) (IDOS 2020). A questi vanno aggiunti circa 900mila immigrati cattolici, che occupano una posizione per vari aspetti intermedia tra la tradizione religiosa storicamente prevalente nel nostro Paese e i nuovi culti introdotti dagli immigrati. Una ricerca appena pubblicata (Ambrosini, Molli e Naso 2022), promossa dal Centro studi Confronti e dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso, approfondisce questo composito panorama con riferimento alla Lombardia, la regione che accoglie il maggior numero d’immigrati e di comunità religiose di origine straniera. Ne riprendiamo qui alcuni spunti.
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