Martedì 24 ottobre l’Islanda si è bloccata per un imponente sciopero, che ha coinvolto tutte le categorie di lavoratori, anzi, di lavoratrici. Si sono fermate decine di migliaia di donne, insieme alle persone cosiddette “non binarie”, per chiedere di migliorare la condizione salariale e sociale femminile, e la Prima Ministra Katrín Jakobsdóttir si è unita alle proteste. Non si sono fermate solo sul posto di lavoro, ma hanno lasciato agli uomini anche tutto l’impegno domestico che ricade sulle loro spalle e che tendiamo a dare troppo per scontato. Un po’ come accadde nell’ormai lontano 1975, quando la quasi totalità delle donne si astenne dalle attività lavorative e casalinghe: «quello sciopero, noto come Kvennafrídagurinn, “il giorno libero delle donne”, è considerato un momento fondamentale per i progressi fatti dall’Islanda sulla parità di genere». Da quel momento, infatti, il paese è diventato un faro in Europa e nel mondo da questo punto di vista, tanto che il World Economic Forum (ci spiega Il Foglio) lo colloca al primo posto della classifica che misura la parità di genere nel mondo, nonostante tutto. Fu l’Islanda, nel 2010, ad eleggere la prima premier al mondo dichiaratamente omosessuale, Johanna Sigurdardottir, dopo mesi di proteste contro una violenta crisi economica, secondo lei determinata da un «eccesso di testosterone». Lei si pose come alternativa, dichiarando che «c’è un modo femminile di stare sul mercato come nella politica, lontano dalle avventure».
Se si considera l'economia nel suo complesso, in Europa le lavoratrici guadagnano il 12,7% in meno ai lavoratori. Questo è un dato che varia sensibilmente all'interno dei paesi dell'unione. I valori più alti si registrano in Estonia (20,5%), Austria (18,8%) e Germania (17,6%). I più bassi in Slovenia (3,8%), Romania (3,6%) e Lussemburgo (-0,2%). In questo scenario, l'Italia si colloca al quintultimo posto con un valore del 5%, circa 8 punti percentuali in meno rispetto alla media dell'Europa.
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