Vorrei evidenziare tre elementi che emergono dalle pagine autobiografiche di Dorothy Day quali insegnamenti preziosi per tutti in questo nostro tempo: l’inquietudine, la Chiesa, il servizio.
Dorothy è una donna inquieta: quando vive il suo cammino di adesione al cristianesimo è giovane, non ha nemmeno ancora trent’anni, da tempo ha abbandonato la pratica religiosa, che le era sembrata, come sottolinea il fratello cui dedica questo libro, una cosa «morbosa». Invece, crescendo nella propria ricerca spirituale, arriva a considerare la fede e Dio non come un «tappabuchi», per usare una celebre definizione del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, bensì quale deve essere veramente, cioè la pienezza della vita e il traguardo della propria ricerca di felicità. Scrive Dorothy Day: «La maggior parte delle volte i barlumi di Dio sono giunti quando ero sola. I miei detrattori non possono dire che sia stata la paura della solitudine e del dolore che mi ha fatto rivolgere a Lui. È stato in questi pochi anni in cui ero sola e strafelice che l’ho trovato. Finalmente l’ho trovato attraverso la gioia e il ringraziamento, non attraverso il dolore».
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