Il 19 febbraio di ogni anno il traffico congestionato della capitale si ferma, liberando la rotonda dalle auto e permettendo alle autorità di porre una corona di fiori ai piedi del monumento, costituito da un grande obelisco, un dito bianco puntato verso il cielo. A fasciarlo altorilievi bronzei sovrapposti che raccontano le brutalità degli occupanti e la forza di un popolo che caccia l’invasore: forche a cui sono appesi preti innocenti, partigiani che scacciano lo straniero, civili inermi scaricati da autocarri a colpi di fucile accanto al trionfo gioioso della libertà e della giustizia. Un ciclo di brutalità e riscatto, di terrore e vittoria, in quella piazza che prende il nome, evocativo, di Piazza dei martiri. Ogni anno il 19 febbraio Addis Abeba si ferma per ricordare le violenze di quel giorno e delle settimane seguenti. È Yekatit 12, il 12 febbraio del calendario copto, il 19 febbraio di quello gregoriano. È il giorno del ricordo dell’Etiopia. I martiri di cui racconta l’odonomastica sono le migliaia di uccisi nei massacri compiuti dagli occupanti. E gli occupanti, si direbbe con un po’ di retorica retrò, siamo noi. O, meglio, gli italiani che il 19 febbraio del 1937 erano nella capitale etiopica come padroni coloniali. I “nostri nonni”. Quel giorno del 1937, a quasi un anno dalla proclamazione dell’Impero fascista italiano, la resistenza etiopica organizza un attentato a Rodolfo Graziani, il viceré che cerca di imporre il dominio italiano sull’impero del Negus. Graziani è un militare di lungo corso, organico al regime fascista, veterano delle guerre coloniali: negli anni della cosiddetta “pacificazione” della Libia tra fine anni Venti e il 1931 si è conquistato il macabro soprannome di “macellaio del Fezzan” (la regione del Sud libico). Le bombe a mano scagliate da Abraham Deboch e Mogus Asghedom, eritrei membri della resistenza anticoloniale, causano sette morti e una cinquantina di feriti, per lo più tra gli alti dignitari etiopi che collaborano con il nuovo regime. Nessuna delle personalità italiane presenti rimane uccisa e lo stesso Graziani sopravvive fortunosamente all’attentato. Scosso dall’accaduto e intenzionato a soffocare nel terrore la possibile rivolta, dal suo letto di ospedale ad Addis Abeba il viceré emana immediatamente l’ordine di rappresaglia. Tre giorni di “vendetta”, in cui ogni italiano viene invitato a punire gli abissini colpevoli, come popolo, di aver sfidato “l’ira di Roma”. Nei giorni che seguono i reparti di Camicie Nere, il regio Esercito, i regi Carabinieri e perfino reparti di lavoratori italiani civili militarizzati si danno alla “caccia al nero”. Le violenze non si arrestano alla fine del terzo giorno: per settimane si registrano atti di violenza contro i civili etiopi, a cui si sommano soprusi e ruberie. I massacri vengono portati avanti con ogni mezzo: i testimoni riportarono scene raccapriccianti, come ad esempio il fatto che «sulle vittime venne usato ogni genere di armi: granate a mano, esplosivi e bombe incendiarie, fucili, revolver [...] oltre a mitragliatrici e pugnali. Agli etiopi catturati veniva spaccata la testa in due con picconi e badili». La stampa internazionale che riporta le notizie dei massacri viene censurata e accusata di sentimenti antitaliani. In uno degli ultimi episodi di rappresaglia, il 21 maggio del 1937, nel monastero copto di Debre Libanòs le truppe italiane massacrano tra le millequattrocento e le duemila persone. Graziani verrà rimosso per incompetenza dal suo ruolo in Etiopia nel dicembre del 1937, ma proseguirà la carriera come governatore della Libia in guerra, fallendo l’invasione dell’Egitto, poi aderirà alla Repubblica di Salò divenendone il ministro delle Forze armate. A guerra finita riuscirà a evitare i processi per i crimini di guerra in Africa; sconterà qualche mese di reclusione per collaborazionismo coi nazisti e prima della morte, avvenuta a Roma nel 1955, verrà nominato presidente onorario del Movimento Sociale Italiano. Nel 2012 il comune di Affile, nel Lazio, gli dedica un sacrario, definendolo “un esempio per i giovani”. Secondo le più recenti stime degli storici, nelle violenze scaturite dai fatti del 19 febbraio persero la vita complessivamente circa 19.000 persone. Vittime dei “nostri nonni”, si direbbe. Questo è Yekatit 12 nella storia e nella memoria etiope. Ma non in quella italiana. È una mancanza che dovrebbe e potrebbe essere finalmente colmata, perché una società civile matura dovrebbe avere la forza di ricordare tutta la propria storia. Sia le parti che la vedono vittima sia le parti che la vedono carnefice. Perché la storia serve, tutta.
Francesco Filippi
L’autore è storico della mentalità, scrittore e formatore. Il suo ultimo libro è Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie, Bollati Boringhieri 2021
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