Il capo politico e religioso fu costretto a fuggire nel 1959: “Ma oggi il numero di buddisti sta crescendo sempre più”
“Il dialogo con Pechino si è interrotto, ma informalmente ho molti contatti. I parlamenti di tutto il mondo ci sostengono”
Sua Santità Tenzin
Gyatso, il XIV Dalai Lama del Tibet vive a
McLeod Ganj a 2100
metri sul livello del mare, poco
sopra Dharamsala, nella regione indiana dell’Himachal Pradesh. La «capitale» della
diaspora tibetana dista soltanto 200 chilometri in linea
d’aria dal Tibet, anche se ciò
che separa il Dalai Lama dalla
propria terra non è la catena
montuosa più alta del Pianeta
- l’Himalaya -, ma 60 anni ininterrotti di esilio. Di questo e altro, il Dalai Lama parla con La Stampa in una mattina di marzo ancora innevata, dopo aver
dato udienza, come ogni giorno, a centinaia di fedeli che
dalle regioni più remote dell'India, del Tibet e della Cina
giungono fin qui per ascoltare
parole di conforto, un consiglio, una benedizione.
Ogni tanto si leggono notizie
contraddittorie sul suo stato
di salute. Come sta?
«Bene, molto bene.Talvolta
provo stanchezza quando
sono impegnato in lunghi insegnamenti religiosi e viaggio ancora molto in India e
nel resto del mondo. Ma non
posso lamentarmi. Nessun
problema».
Esattamente sessant’anni fa
dovette fuggire da Lhasa, lasciare il Tibet per trovare rifugio in India. Come si sente
a vivere in esilio per cosi tanto tempo?
«Sessant’anni fa dovetti abbandonare il Tibet in seguito
agli eventi tragici che sono noti a tutti. Sono un rifugiato da
tanto tempo e cerco di apprezzare la mia nuova condizione
di vita. In questi anni da “rifugiato” ho avuto però molte opportunità di lavorare per aumentare l’armonia fra le religioni e di poter condividere
con milioni di esseri umani
l’originalità della cultura buddista tibetana e del nostro
pensiero filosofico. Se fossi rimasto in Tibet, queste opportunità mi sarebbero state precluse. L’India ci ha accolti ed è
un Paese libero. Grazie a questa libertà mi è stato possibile
far conoscere il Tibet, la sua
cultura e la sua storia, avviare
un dialogo con molti scienziati
sui temi della neuroscienza,
condividere la tradizione buddista tibetana, ma non solo le
preghiere o le tecniche di meditazione, ma soprattutto il
suo impianto filosofico. E
ovunque io vada nessuno si rivolge a me come il “Dalai Lama della Cina”, ma come il Dalai Lama del Tibet».
E quindi l’India la sua nuova
casa?
«È un Paese libero, una grande
democrazia e se è vero che siamo venuti qui “fisicamente”
come rifugiati, è qui che si trovano le nostre radici ed è qui
che il Buddha ha iniziato i propri insegnamenti».
Quest’anno non è solo il
60mo anniversario del suo
esilio ma anche il 30mo anniversario delle proteste studentesche di Tienanmen.
Quanto è cambiata la Cina in
questi anni?
«La Cina moderna è stata caratterizzata da quattro stagioni e da quattro leader:
Mao Tse Tung; Deng Xiao
Ping; Hu Jintao e infine Xi
Jinping. Anche se in tutte
queste quattro fasi della vita
della Cina c’è sempre stato un
sistema dominato dallo stesso
Partito comunista, molte cose
sono cambiate. Deng Xiao
Ping aprì la Cina al mondo e
contribuì in modo radicale al
cambiamento delle condizioni economiche del Paese promuovendo un grande sviluppo; Jang Zemin fece ulteriori
riforme aprendo il Partito comunista agli intellettuali e
agli imprenditori; Hu Jintao
proseguì il cammino iniziato
senza particolari innovazioni.
Ed oggi abbiamo la nuova leadership di Xi Jinping, ma per
il Tibet non è cambiato molto… Però in Cina qualcosa sta
cambiando: Il buddismo, per
esempio, sta avendo una rapida e grande diffusione. La
Beijing University ha stimato
che, solo negli ultimi 5 anni,
il numero dei buddisti nel Paese sia passato da 300 a 400
milioni e questo fenomeno ha
coinvolto soprattutto la classe
media e la fascia più istruita
della popolazione. Molti di
questi buddisti considerano
la tradizione tibetana come la
più autentica e questo è uno
sviluppo molto positivo».
E qual è l’atteggiamento
della Cina nei confronti del
Tibet?
«Storicamente il Tibet non ha
mai fatto parte della Cina e
molti testi storici cinesi lo riconoscono. Dalla dinastia Tang,
fino a quella Manchu esistevano tre imperi distinti: quello
cinese, quello mongolo e quello tibetano. La storia è la storia. Ma nonostante ciò, dal
1974 abbiamo rinunciato ad
ogni richiesta di indipendenza
(dalla Cina ndr) e siamo disponibili a negoziare lo status
di un Tibet autonomo all’interno della Repubblica Popolare Cinese, a condizione che
la Cina riconosca ai tibetani i
loro diritti fondamentali: professare la propria religione, tenere in vita la lingua e la cultura tibetana, preservare il proprio stile di vita. Siamo sempre disponibili al dialogo e siamo aperti a soluzioni politiche
condivise anche se a Pechino
continuano a definirmi un “separatista”… Molti intellettuali
in Cina e anche diversi membri del Partito comunista sono
disponibili al dialogo con il Tibet. Le cose stanno cambiando, ma non sono in grado di
valutare quanto grandi saranno questi cambiamenti in Cina
nel prossimo futuro».
Qual è oggi la situazione a
Lhasa e nel resto del Tibet?
«Non c’è dubbio che vi sia stato in questi anni un notevole
sviluppo materiale e ciò è
certamente positivo, ma in
diverse aree della Regione
Autonoma Tibetana abbiamo
notizie di una forte repressione e di un controllo crescente
nei confronti della popolazione. Anche lo studio della
lingua tibetana in alcune
scuole è vietato o vi sono crescenti restrizioni. E non è solo un problema del Tibet.
Guardi cosa sta accadendo
nel Sinkiang dove il regime
cinese ha promosso una politica di internamento di centinaia di migliaia di uiguri».
Crede che un dialogo con la
Cina sia ancora possibile?
«Si certo, è sempre possibile!
Fra il 2002 e il 2010 vi sono
stati contatti diretti con il governo cinese poi purtroppo il
dialogo si è interrotto. Da allora ho però continuato ad
avere molti contatti informali
con diversi esponenti cinesi
(ex dirigenti politici, businessman), che continuo a incontrare in forma privata. Il dialogo va tenuto sempre in vita.
Ma come è noto fin dal 2001
ho rinunciato ad ogni ruolo
politico ed oggi la comunità
tibetana in esilio elegge in
modo democratico i propri
rappresentanti (Parlamento
e governo) e sono elezioni vere, libere, non come quelle in
Cina (ride ndr)».
Cosa crede debba fare la comunità internazionale per
sostenere la sua richiesta di
un nuovo dialogo con la Cina che porti ad una soluzione pacifica della questione
tibetana?
«Recentemente il Parlamento
del Giappone ha espresso una
posizione molto forte sul Tibet e cosi hanno fatto diverse
volte il Parlamento europeo e
molti Parlamenti nazionali,
compreso quello italiano. Il
Congresso degli Stati Uniti ha
da poco votato una risoluzione per aprire il Tibet ai media
internazionali. Apprezzo
molto tutto ciò. Fra Cina e Tibet vi è uno scontro fra il potere della verità e il potere della
forza, fino al oggi ha prevalso
il secondo, ma sul lungo periodo non potrà che prevalere il
primo. La verità avrà la meglio sulla forza. La leadership
cinese ha in questi anni optato per una linea di durezza e
fermezza nei confronti della
questione tibetana: per sessant’anni la popolazione è
stata sottoposta a soprusi,
terrore, torture, carcerazioni
arbitrarie e “lavaggio del cervello”, ma la durezza della repressione ha fallito: le nuove
generazioni in Tibet sono
sempre più motivate nel con-
servare la propria cultura e la
propria identità. Ora anche
fra diversi leader cinesi ci si
interroga se non sia giunto il
momento di adottare una politica meno repressiva e più
realistica in Tibet. Vedremo».
Ambiente e riscaldamento
globale sono un tema che ricorre spesso nelle sue riflessioni. Perché?
«Fin da quando ho rinunciato
ad ogni responsabilità politi-
ca, la questione ambientale è
stata per me una priorità. Uno
scienziato cinese ha recente-
mente descritto l’altopiano tibetano come il “Terzo Polo”
del Pianeta, i cui mutamenti
possono condizionare il riscaldamento globale quanto il Polo Nord e il Polo Sud. Il Tibet è
un ecosistema estremamente
delicato: l’altezza molto elevata, il poco ossigeno e il clima
molto secco fanno sì che ogni
mutamento indotto dall’uomo
renda necessario un tempo
molto lungo per riparare
eventuali danni. Tutti i grandi
fiumi dell’Asia (il Mekong, lo
Yangtze, il Gange, l’Indo e il
Brahmaputra) nascono in Tibet e le sue acque portano la
vita a 3 miliardi di esseri umani. Per questo motivo l’ambiente in Tibet va rispettato in
modo particolare».
INTERVISTA
GIANNI VERNETTI
DHARAMSALA (INDIA)
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