Così fece Giovanni Boccaccio con il Decameron, all’inizio del quale narra il disfacimento di Firenze, resa un cimitero dalla peste del 1348. Anche lui vi aveva perso amici e parenti, e nella sua narrazione cercava salvezza per sé e i lettori: «Questo orrido cominciamento vi sarà, non altrimenti che ai camminanti, una montagna aspra e erta, presso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia riposto». I ricercatori della cura contro la peste sono 10 giovani (7 ragazze e 3 ragazzi) che, dopo aver pregato in Santa Maria Novella, decidono di ritirarsi in campagna, ri-creando la vita che la peste ha distrutto, trascorrendo due settimane tra lavoro, meditazione e riposo. Ogni pomeriggio (tranne venerdì e sabato per ragioni liturgiche) si sceglie un tema e ciascuno racconta una storia, e così sono 10 i giorni (da cui il titolo dell’opera) nei quali vengono narrate le 100 famose novelle (Chichibio e la gru, Federigo degli Alberighi, Lisabetta da Messina...). Emergono così le fondamenta che lo scintillante autunno del Medioevo consegnava all’Occidente come antidoto alla morte. Fortuna, Amore e Ingegno sono infatti gli argomenti attorno a cui ruotano i racconti (e la vita), perché Amore e Ingegno sono le due forze umane capaci di contrastare la Fortuna, il caos dell’intera vicenda umana, compresa in modo esemplare tra la malvagità di Ciappelletto nella prima novella e la magnanimità di Griselda nell’ultima. Il Decameron è un distillato della cultura medievale per «ri-creare» la vita (il titolo riprende l’Exameron di Sant’Ambrogio, relativo alla creazione del mondo in sei giorni). Il più importante studioso di Boccaccio, Vittore Branca, dice infatti che le 100 novelle sono la versione «umana» dei 100 canti della commedia «divina» di Dante, a cui Boccaccio era profondamente legato (morì mentre ne esponeva l’opera ai fiorentini in piazza). Non si capisce il Medioevo se non si tengono insieme Decameron e Commedia come poli, umano e divino, della vita: «l’armonia di ansia del trascendente e di ricerca del concreto, di mistici rapimenti e corposa volontà di vivere, di eroismi civili e religiosi e di violenza degli istinti del sesso e della roba, rende così affascinante questa età così complessa e multiforme, madre della nostra cultura e della nostra vita». Mentre Dante narra il versante interiore della guarigione (dal peccato), Boccaccio quello esteriore (dalla peste). Per uno la «purificazione» è la via verticale verso la Vita, per l’altro è l’orizzontale difesa della vita, rappresentata simbolicamente da 10 giovani e 100 racconti, che arginano la morte ricreando le fondamenta della loro civiltà: ordine, razionalità, relazioni, bellezza.
E noi? Assaltiamo supermercati e farmacie, ci isoliamo, consultiamo di continuo aggiornamenti e informazioni. Non si sa a chi credere e, in assenza di verità, la paura, senza un preciso oggetto, diventa angoscia, che rende l’agire assurdo. Alla Fortuna non opponiamo né Amore né Ingegno: non ci siamo allenati in tempi di pace. Ci difendiamo dalla morte accumulando cose, medicine, informazioni: abbiamo imparato queste risposte. E così viviamo nella paura senza interrogarla, come invece è chiamata a fare una manciata di polvere animata dal soffio di Dio. Ci crediamo così progrediti che, quando sbeffeggiamo chi è retrogrado, usiamo l’aggettivo «medioevale». Ma forse se ci riscoprissimo eredi di un umanesimo che ha lasciato un «mondo» di bellezza, proprio perché sapeva che – divino e umano – sono entrambi necessari per fare il «mondo», apriremmo vie nuove contro la morte. L’Amuchina rende le mani pure, sterili, ma sterile è anche chi non crea e ricrea la vita: non può e non deve bastare per quello che le nostre mani possono ricevere, dare e fare.
Alessandro D’Avenia
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