In Tanzania dal 2009 ad oggi nelle terre di Simba (il Re Leone) più di 150.000 Masai sono stati espulsi dal loro territorio per creare lussuose riserve di caccia grossa destinate a VIP e oligarchi di mezzo mondo (arabi, russi, americani, in primis).
Tour operator multinazionali mettono a disposizione della loro clientela lodge a 5 stelle, elicotteri e aeroporti privati. In questi airfield delle foreste africane passa di tutto e i gestori dei voli non gradiscono che i Masai possano monitorare le loro attività.
Spostare persone e villaggi è talora necessario per realizzare infrastrutture destinate al bene comune, per esempio per la creazione di bacini idroelettrici. Ma sradicare intere comunità dalle proprie montagne (e trasferirle a 700/800 km di distanza sulla costa dell’Oceano Indiano) per soddisfare il divertimento di una ristretta élite di cacciatori miliardari appare politicamente e moralmente inaccettabile.
La cacciata delle comunità Masai dalle loro terre in Tanzania è uno dei tanti esempi dello “approccio predatorio verso l’Africa” criticato più volte da Giorgia Meloni nell’ambito della presidenza italiana del G7. Nel novembre 2023 la Corte di appello della Tanzania ha emesso per la prima volta una sentenza favorevole alle proteste delle comunità Masai e questo è un elemento positivo.
Tuttavia si tratta solo di una prima tappa per una vicenda politica e giudiziaria che si trascina da tre decenni e che si protrarrà per lungo tempo ancora. L’Italia, volendo, potrebbe dare un contributo positivo sulla scia della posizione assunta recentemente dal Parlamento europeo.
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