(Storia ecclesiastica, VII, 22, 7-10)
mercoledì 7 ottobre 2020
Da una lettera di Dionigi di Alessandria, III sec.
«La maggior parte dei nostri fratelli, per l’amore eccessivo e la carità fraterna che hanno gli uni verso gli altri, visitando senza precauzione gli ammalati, li servivano splendidamente, curandoli in Cristo, e morivano ben volentieri con loro; contaminati dal male degli altri, attiravano su di sé la malattia del prossimo, assumendone di buon grado le sofferenze. E molti, che curarono gli altri e ridiedero loro le forze, morirono poi essi stessi, trasferendo la loro morte su di sé […]. I migliori dei nostri fratelli, presbiteri, diaconi e laici, persero quindi in questo modo la vita, ricevendone grande lode, così che anche questo genere di morte, risultato di grande pietà e fede vigorosa, non pare affatto inferiore al martirio. Stringevano al petto nelle loro braccia i corpi dei santi, ne pulivano gli occhi e chiudevano loro la bocca, poi li portavano in spalla e ne componevano il cadavere; stretti a loro, li abbracciavano, li lavavano, li ornavano con paramenti, e poco dopo ricevevano le stesse cure, perché i superstiti seguivano poi sempre quanti li avevano preceduti. La condotta dei pagani, invece, era completamente l’opposto: cacciavano chi iniziava ad ammalarsi, evitavano le persone più care, gettavano sulla strada i moribondi, trattavano come rifiuti i cadaveri insepolti, cercavano di sfuggire alla diffusione e al contagio della morte, che non era facile allontanare, malgrado prendessero tutte le precauzioni»
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