Il Natale è per l’uomo
Il Natale, ormai, è una festa non solo riservata ai cristiani ma sempre più carica di una valenza antropologica. I valori della quotidianità, del tessuto della vita, le relazioni umane, l’amicizia, l’amore, la fraternità sono ormai legati a questo giorno al punto che anche là dove vi è contrapposizione tra credenti e non credenti, la festa rimane tale per tutti: magari, invece di «Buon Natale! » i non credenti si augurano un più generico «Buone Feste!», ma il clima dell’incontro, della gioia, dell’intimità è da tutti condiviso. Il Natale è un’autentica occasione per riaccendere una speranza che riguarda l’umanità intera; in questo senso tutti noi sappiamo benissimo «cos’è» il Natale.
Eppure ciascuno di noi ne ha un’immagine personalissima, legata ai ricordi d’infanzia e ai tanti Natali vissuti, a volti e parole di persone amate, a consuetudini che ha voluto conservare o ricreare, e ciascuno cerca di viverlo ogni anno secondo quell’immagine.
Il Natale, ormai, è una festa non solo riservata ai cristiani ma sempre più carica di una valenza antropologica. I valori della quotidianità, del tessuto della vita, le relazioni umane, l’amicizia, l’amore, la fraternità sono ormai legati a questo giorno al punto che anche là dove vi è contrapposizione tra credenti e non credenti, la festa rimane tale per tutti: magari, invece di «Buon Natale! » i non credenti si augurano un più generico «Buone Feste!», ma il clima dell’incontro, della gioia, dell’intimità è da tutti condiviso. Il Natale è un’autentica occasione per riaccendere una speranza che riguarda l’umanità intera; in questo senso tutti noi sappiamo benissimo «cos’è» il Natale.
Eppure ciascuno di noi ne ha un’immagine personalissima, legata ai ricordi d’infanzia e ai tanti Natali vissuti, a volti e parole di persone amate, a consuetudini che ha voluto conservare o ricreare, e ciascuno cerca di viverlo ogni anno secondo quell’immagine.
Del resto, il porre l’accento sull’uno o sull’altro degli aspetti del mistero dell’incarnazione risale fino alle origini stesse della festa. E’ almeno dal IV secolo che i cristiani il 25 dicembre fanno memoria della nascita di Gesù Cristo a Betlemme di Giudea: una data scelta perché in quel giorno il mondo romano celebrava e festeggiava il «sole invitto», il sole che in quel giorno terminava il suo progressivo declinare all’orizzonte e ricominciava a salire in alto nel cielo, aumentando cosi la durata della luce offerta alla terra. La notte, che dal 24 giugno aveva sempre accresciuto le sue ore, cominciava ad arretrare davanti al sole vincitore che come un prode cresceva all’orizzonte. E siccome per i cristiani Gesù il Messia è il «sole di giustizia», la «luce vera», fu naturale collocare in quel giorno di festa pagana la celebrazione della natività del loro Signore. D’altronde la venuta del Messia era già stata salutata da Israele e dai profeti come «venuta, apparizione della luce», come «luce che risplende per quelli che stanno nelle tenebre».
Questa inculturazione del cristianesimo non è stata facile e forse il Natale dei cristiani conservò, almeno per i più, qualcosa di pagano, di estraneo alla fede se papa Leone Magno nel v secolo doveva biasimare «quei cristiani che prima di entrare nella basilica di San Pietro dopo aver salito la scalinata che porta all’atrio superiore si volgono verso il sole e piegano il capo in suo onore»! La meditazione cristiana faceva di quella festa il giorno dell’incarnazione di Dio, il giorno in cui è avvenuto uno scambio: «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio».
Poi, nel II millennio, soprattutto in Occidente, la meditazione del Natale si è progressivamente concentrata sul «bambino Gesù», sulla sua umanità, sulla sua debolezza e sulla «novità ordinaria» costituita dal venire al mondo di un uomo: l’evento non fu più letto tanto come manifestazione, venuta di Dio, quanto come mistero della povertà, dell’umiltà, della debolezza di Dio.
Francesco d’Assisi seppe interpretare bene questo aspetto, creando il presepe di Greccio: una stalla, una mangiatoia, Maria, Giuseppe e il neonato, un asino e un bue, i pastori venuti ad adorare il bambino su invito dei messaggeri di Dio. Il presepe è la riproposizione iconica o scultorea di quell’evento umile e povero che, se ci pensiamo bene, è tra i più umani e quotidiani: una donna che partorisce un figlio. Scena oggi più rara in Occidente, e per lo più relegata negli ospedali, ma un tempo abituale anche nelle nostre famiglie. Si, una nascita, un essere umano che viene al mondo, è di per sé qualcosa che nella sua normalità stupisce: emerge il «terzo», appare il nuovo e lo si accoglie con gioia e con buona disposizione del cuore. E un evento di speranza: chi vi assiste, in particolare se ormai avanti negli anni, è abitato e consolato dal pensiero che il mondo va avanti, che la vita fiorisce e si moltiplica, che un futuro migliore è possibile, segno tangibile del nostro essere immessi in una catena di generazioni. Credo sia anche per questo che il presepe ha avuto tanta fortuna nell’Occidente cattolico, ma anche tanta narrazione iconografica nell’ Oriente ortodosso.
Nel Nord invece, dove il sole non dà evidenti segni di vittoria nel gelido inverno, la festa è segnata da un albero, l’abete, evocazione dell’albero della vita: un albero che resta vivo e verde nel bianco della neve è il vincitore sul rigore del freddo nelle steppe brulle. Ecco allora l’albero vicino alle case e alle chiese o addirittura al loro interno, addobbato di colori e di luce, quasi obbligato a fiorire e risplendere al cuore della notte invernale. Se il modo di percepire e celebrare il Natale è cambiato nei secoli, i mutamenti si sono fatti più rapidi in questi ultimi decenni, al punto che chi è anziano può misurarli nell’arco della sua stessa esistenza. Un tempo, negli anni dell’immediato dopoguerra e fino al boom economico, periodo da me trascorso nella campagna monferrina, il Natale era davvero la festa più importante dell’anno e non certo per i regali, allora tali per modo di dire e ben scarsi. Alcune volte c’era qualcosa da donare ai figli, ma altre volte i genitori sconsolati dicevano con molta naturalezza che non c’era niente perché l’annata era stata cattiva. Quando c’erano, i regali erano frutta secca, cioccolatini, caramelle, il panettone oppure, se ci si scostava dai dolci, un quaderno più bello, una nuova penna, qualche matita colorata…
Eppure, si attendeva il Natale con ansia. Iniziata la novena di preparazione, noi bambini andavamo nei boschi a raccogliere il muschio, cercavamo carta da pacco che spruzzavamo con vari colori e poi l’accartocciavamo perché assumesse la forma di rocce, grotte, speroni di montagna. Quindi su un tavolo in cucina o nella sala si disponevano le statuine del presepe, cercando ogni anno che la composizione assumesse un aspetto diverso. Era davvero come allestire un dramma sacro: nella grotta si metteva la mangiatoia vuota, Maria e Giuseppe, l’asino e il bue; sulla soglia i pastori che adoravano e portavano i loro semplici doni; più sopra gli angeli sormontati dalla stella che brillava in alto luminosa (li venivano in aiuto le prime luminarie che cominciavano a diffondersi nei negozi e sulle bancarelle del mercato); attorno, la campagna riproduceva ambienti familiari: specchi d’acqua con le oche, prati con pecore, agnelli e asini, poi le case con la gente intenta ai propri mestieri: il mugnaio, il fabbro, il falegname… Lontano, ai margini, austero su una rocca, vi era il castello di Erode e lassù erano collocati i magi con i loro cammelli, che ogni giorno venivano spostati di qualche passettino in modo che giungessero alle soglie della grotta il giorno dell’Epifania. Noi bambini mettevamo tanta cura in quell’allestimento perché sentivamo di poter vivere dentro di noi quello che cercavamo di raffigurare. Mi ricordo che mi mettevo accanto al presepe con il Vangelo in mano e che, in base a quello che vi leggevo, disponevo e spostavo statuine e personaggi. Ero sorpreso di non trovare nel Vangelo l’asino e il bue, che pure mi erano così familiari e che consideravo necessari per riscaldare quel bambino che stava per venire «in una grotta al freddo e al gelo»! Il parroco mi aveva rassicurato dicendomi che il profeta Isaia aveva scritto che «il bue riconosce il suo Signore e l’asino riconosce la greppia del suo padrone» (Isaia 1.3). Questo mi aveva tranquillizzato e, poco alla volta, portato a capire che anche le povere bestie, cosi come i semplici pastori e i sapienti magi, avevano saputo riconoscere la venuta di Dio nel mondo, mentre invece re potenti, sacerdoti, scribi, uomini religiosi non se ne erano accorti. La vigilia di Natale, poi, si pregava tutti attorno al presepe: noi bambini contemplavamo quelle lucine che nella povertà del dopoguerra erano capaci di stupirci con i loro colori e il loro lampeggiare, ma nello stesso tempo eravamo attratti dal mistero di un infante deposto sulla paglia, incapace di parlare, eppure proprio quel bambino era il Dio per noi e tra di noi, il Dio che per amore nostro volle farsi uno di noi.
Qualcuno, invece del presepe, addobbava l’albero, anche se quest’usanza non era gradita al parroco, perché aveva un vago sapore «protestante», e l’ecumenismo doveva ancora trovare spazio nella chiesa. Io li preparavo entrambi, l’uno accanto all’altro, e quando mi mancava il pino, piantavo in un vaso una scopa di saggina capovolta, la scompigliavo e la addobbavo di luci e palle colorate. Si, nello stupore creativo di noi bambini anche la scopa, cosi umile e necessaria, a Natale conosceva il suo momento di gloria luminosa.
Ma ciò che faceva percepire a tutti la gioia del Natale erano i preparativi per il pranzo, anche nelle famiglie più povere: le pentole che bollivano con il cappone, le donne che si riunivano per preparare insieme i ravioli e predisporre le sette portate «canoniche», indispensabili perché il pranzo fosse «il pranzo di Natale», un unicum in tutto l’anno. Gli uomini invece cercavano il ceppo da mettere nel camino: non la solita legna, ma un ceppo nodoso e grande, che durasse dalla sera fino al ritorno dalla messa di mezzanotte, quando si rientrava a casa intirizziti dal freddo, perché la chiesa non era riscaldata e per molti il tragitto fino a casa era lungo. E a quella messa andavano tutti, anche quelli che durante l’anno non si facevano mai vedere in chiesa:
l’umile semplicità del Figlio di Dio, che appariva come il figlio di una coppia di poveri in viaggio, inteneriva anche i cuori più duri.
Il parroco dal canto suo sapeva cogliere quell’opportunità unica, sapeva far valere la sua autorità che stava tutta in una parola franca, schietta, nel suo sapersi fare eco della buona notizia del Natale. Cosi, semplicemente, chiedeva a tutti di essere più buoni, di riconciliarsi con coloro con i quali si era in lite, di perdonare le offese. Non chiedeva altro, perché nel suo sapiente discernimento sapeva che per quei contadini che uscivano dal paese solo per andare al mercato nella città vicina, ciò che condizionava la loro vita e la loro felicità, oltre al pane, la casa e il vestito, erano i rapporti quotidiani con gli altri: parenti, vicini, conoscenti. Si, pace, concordia, armonia erano capite cosi: la pace, quella che era sperimentata con il finire della guerra, era percepita come una «grazia»: «Questo non è più un Natale di guerra, — dicevano, — siamo contenti e ringraziamo Dio». Con la consapevolezza cioè che quel tipo di pace non dipendesse da loro, ma dai potenti che decidevano le sorti della pace e della guerra. Mentre la pace quotidiana, l’armonia nella vita familiare e nei rapporti sociali, quella si che dipendeva da ciascuno custodirla e farla vivere. Cosi il parroco non dedicava parole e pensieri ai grandi del mondo, ma esortava con voce accorata quelli che lo ascoltavano anche solo in quell’occasione affinché coltivassero durante tutto l’anno quel desiderio di armonia e concordia sperimentato nella notte di Natale.
Così, anche il Dio che a volte nelle parole del parroco era il Dio irato che mandava la grandine sulla vigna di quelli che lavoravano alla domenica o che bestemmiavano, tornava al suo volto autentico: un Dio buono, che capiva gli uomini e chiedeva loro solo di essere buoni, sull’esempio di suo Figlio, Gesù. E quest’immagine di un Dio umanissimo riaccendeva la speranza di una vita migliore anche in quegli uomini rudi, che silenziosi si mettevano in fila come bambini per baciare il piedino di quella che era si solo una statua, ma capace di rievocare tutta l’inerme innocenza di un neonato.
Oggi queste usanze, cose legate a una vita contadina e a un mondo più semplice e più povero che in Occidente non conosciamo più, sono scomparse, e i cristiani scoprono di non essere più «padroni» del Natale, una festa ormai strappata loro di mano. Tuttavia sta proprio a loro, con la loro «differenza» nel vivere il Natale, essere i custodi del senso profondo della festa e i testimoni della speranza che celebrano: «l’uomo è un animale chiamato a diventare Dio». Si, attraverso un’umanizzazione della loro vita, della vita con gli altri, della vita nella polis, i cristiani saranno più fedeli che mai alla loro identità mentre coloro che cristiani non sono potranno solo beneficiare del servizio per una migliore qualità della vita offerto dai cristiani. Non si celebra la venuta di Cristo nella carne contrapponendosi agli altri, mostrandosi angosciati e cinici e limitandosi a demonizzare quanti non vivono il Natale da cristiani perché non hanno la fede. «Non di tutti è la fede», ci ricorda sempre l’apostolo Paolo, ma tra tutti è possibile tessere cammini di pace, di giustizia, di perdono, di ascolto reciproco.
Questa inculturazione del cristianesimo non è stata facile e forse il Natale dei cristiani conservò, almeno per i più, qualcosa di pagano, di estraneo alla fede se papa Leone Magno nel v secolo doveva biasimare «quei cristiani che prima di entrare nella basilica di San Pietro dopo aver salito la scalinata che porta all’atrio superiore si volgono verso il sole e piegano il capo in suo onore»! La meditazione cristiana faceva di quella festa il giorno dell’incarnazione di Dio, il giorno in cui è avvenuto uno scambio: «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio».
Poi, nel II millennio, soprattutto in Occidente, la meditazione del Natale si è progressivamente concentrata sul «bambino Gesù», sulla sua umanità, sulla sua debolezza e sulla «novità ordinaria» costituita dal venire al mondo di un uomo: l’evento non fu più letto tanto come manifestazione, venuta di Dio, quanto come mistero della povertà, dell’umiltà, della debolezza di Dio.
Francesco d’Assisi seppe interpretare bene questo aspetto, creando il presepe di Greccio: una stalla, una mangiatoia, Maria, Giuseppe e il neonato, un asino e un bue, i pastori venuti ad adorare il bambino su invito dei messaggeri di Dio. Il presepe è la riproposizione iconica o scultorea di quell’evento umile e povero che, se ci pensiamo bene, è tra i più umani e quotidiani: una donna che partorisce un figlio. Scena oggi più rara in Occidente, e per lo più relegata negli ospedali, ma un tempo abituale anche nelle nostre famiglie. Si, una nascita, un essere umano che viene al mondo, è di per sé qualcosa che nella sua normalità stupisce: emerge il «terzo», appare il nuovo e lo si accoglie con gioia e con buona disposizione del cuore. E un evento di speranza: chi vi assiste, in particolare se ormai avanti negli anni, è abitato e consolato dal pensiero che il mondo va avanti, che la vita fiorisce e si moltiplica, che un futuro migliore è possibile, segno tangibile del nostro essere immessi in una catena di generazioni. Credo sia anche per questo che il presepe ha avuto tanta fortuna nell’Occidente cattolico, ma anche tanta narrazione iconografica nell’ Oriente ortodosso.
Nel Nord invece, dove il sole non dà evidenti segni di vittoria nel gelido inverno, la festa è segnata da un albero, l’abete, evocazione dell’albero della vita: un albero che resta vivo e verde nel bianco della neve è il vincitore sul rigore del freddo nelle steppe brulle. Ecco allora l’albero vicino alle case e alle chiese o addirittura al loro interno, addobbato di colori e di luce, quasi obbligato a fiorire e risplendere al cuore della notte invernale. Se il modo di percepire e celebrare il Natale è cambiato nei secoli, i mutamenti si sono fatti più rapidi in questi ultimi decenni, al punto che chi è anziano può misurarli nell’arco della sua stessa esistenza. Un tempo, negli anni dell’immediato dopoguerra e fino al boom economico, periodo da me trascorso nella campagna monferrina, il Natale era davvero la festa più importante dell’anno e non certo per i regali, allora tali per modo di dire e ben scarsi. Alcune volte c’era qualcosa da donare ai figli, ma altre volte i genitori sconsolati dicevano con molta naturalezza che non c’era niente perché l’annata era stata cattiva. Quando c’erano, i regali erano frutta secca, cioccolatini, caramelle, il panettone oppure, se ci si scostava dai dolci, un quaderno più bello, una nuova penna, qualche matita colorata…
Eppure, si attendeva il Natale con ansia. Iniziata la novena di preparazione, noi bambini andavamo nei boschi a raccogliere il muschio, cercavamo carta da pacco che spruzzavamo con vari colori e poi l’accartocciavamo perché assumesse la forma di rocce, grotte, speroni di montagna. Quindi su un tavolo in cucina o nella sala si disponevano le statuine del presepe, cercando ogni anno che la composizione assumesse un aspetto diverso. Era davvero come allestire un dramma sacro: nella grotta si metteva la mangiatoia vuota, Maria e Giuseppe, l’asino e il bue; sulla soglia i pastori che adoravano e portavano i loro semplici doni; più sopra gli angeli sormontati dalla stella che brillava in alto luminosa (li venivano in aiuto le prime luminarie che cominciavano a diffondersi nei negozi e sulle bancarelle del mercato); attorno, la campagna riproduceva ambienti familiari: specchi d’acqua con le oche, prati con pecore, agnelli e asini, poi le case con la gente intenta ai propri mestieri: il mugnaio, il fabbro, il falegname… Lontano, ai margini, austero su una rocca, vi era il castello di Erode e lassù erano collocati i magi con i loro cammelli, che ogni giorno venivano spostati di qualche passettino in modo che giungessero alle soglie della grotta il giorno dell’Epifania. Noi bambini mettevamo tanta cura in quell’allestimento perché sentivamo di poter vivere dentro di noi quello che cercavamo di raffigurare. Mi ricordo che mi mettevo accanto al presepe con il Vangelo in mano e che, in base a quello che vi leggevo, disponevo e spostavo statuine e personaggi. Ero sorpreso di non trovare nel Vangelo l’asino e il bue, che pure mi erano così familiari e che consideravo necessari per riscaldare quel bambino che stava per venire «in una grotta al freddo e al gelo»! Il parroco mi aveva rassicurato dicendomi che il profeta Isaia aveva scritto che «il bue riconosce il suo Signore e l’asino riconosce la greppia del suo padrone» (Isaia 1.3). Questo mi aveva tranquillizzato e, poco alla volta, portato a capire che anche le povere bestie, cosi come i semplici pastori e i sapienti magi, avevano saputo riconoscere la venuta di Dio nel mondo, mentre invece re potenti, sacerdoti, scribi, uomini religiosi non se ne erano accorti. La vigilia di Natale, poi, si pregava tutti attorno al presepe: noi bambini contemplavamo quelle lucine che nella povertà del dopoguerra erano capaci di stupirci con i loro colori e il loro lampeggiare, ma nello stesso tempo eravamo attratti dal mistero di un infante deposto sulla paglia, incapace di parlare, eppure proprio quel bambino era il Dio per noi e tra di noi, il Dio che per amore nostro volle farsi uno di noi.
Qualcuno, invece del presepe, addobbava l’albero, anche se quest’usanza non era gradita al parroco, perché aveva un vago sapore «protestante», e l’ecumenismo doveva ancora trovare spazio nella chiesa. Io li preparavo entrambi, l’uno accanto all’altro, e quando mi mancava il pino, piantavo in un vaso una scopa di saggina capovolta, la scompigliavo e la addobbavo di luci e palle colorate. Si, nello stupore creativo di noi bambini anche la scopa, cosi umile e necessaria, a Natale conosceva il suo momento di gloria luminosa.
Ma ciò che faceva percepire a tutti la gioia del Natale erano i preparativi per il pranzo, anche nelle famiglie più povere: le pentole che bollivano con il cappone, le donne che si riunivano per preparare insieme i ravioli e predisporre le sette portate «canoniche», indispensabili perché il pranzo fosse «il pranzo di Natale», un unicum in tutto l’anno. Gli uomini invece cercavano il ceppo da mettere nel camino: non la solita legna, ma un ceppo nodoso e grande, che durasse dalla sera fino al ritorno dalla messa di mezzanotte, quando si rientrava a casa intirizziti dal freddo, perché la chiesa non era riscaldata e per molti il tragitto fino a casa era lungo. E a quella messa andavano tutti, anche quelli che durante l’anno non si facevano mai vedere in chiesa:
l’umile semplicità del Figlio di Dio, che appariva come il figlio di una coppia di poveri in viaggio, inteneriva anche i cuori più duri.
Il parroco dal canto suo sapeva cogliere quell’opportunità unica, sapeva far valere la sua autorità che stava tutta in una parola franca, schietta, nel suo sapersi fare eco della buona notizia del Natale. Cosi, semplicemente, chiedeva a tutti di essere più buoni, di riconciliarsi con coloro con i quali si era in lite, di perdonare le offese. Non chiedeva altro, perché nel suo sapiente discernimento sapeva che per quei contadini che uscivano dal paese solo per andare al mercato nella città vicina, ciò che condizionava la loro vita e la loro felicità, oltre al pane, la casa e il vestito, erano i rapporti quotidiani con gli altri: parenti, vicini, conoscenti. Si, pace, concordia, armonia erano capite cosi: la pace, quella che era sperimentata con il finire della guerra, era percepita come una «grazia»: «Questo non è più un Natale di guerra, — dicevano, — siamo contenti e ringraziamo Dio». Con la consapevolezza cioè che quel tipo di pace non dipendesse da loro, ma dai potenti che decidevano le sorti della pace e della guerra. Mentre la pace quotidiana, l’armonia nella vita familiare e nei rapporti sociali, quella si che dipendeva da ciascuno custodirla e farla vivere. Cosi il parroco non dedicava parole e pensieri ai grandi del mondo, ma esortava con voce accorata quelli che lo ascoltavano anche solo in quell’occasione affinché coltivassero durante tutto l’anno quel desiderio di armonia e concordia sperimentato nella notte di Natale.
Così, anche il Dio che a volte nelle parole del parroco era il Dio irato che mandava la grandine sulla vigna di quelli che lavoravano alla domenica o che bestemmiavano, tornava al suo volto autentico: un Dio buono, che capiva gli uomini e chiedeva loro solo di essere buoni, sull’esempio di suo Figlio, Gesù. E quest’immagine di un Dio umanissimo riaccendeva la speranza di una vita migliore anche in quegli uomini rudi, che silenziosi si mettevano in fila come bambini per baciare il piedino di quella che era si solo una statua, ma capace di rievocare tutta l’inerme innocenza di un neonato.
Oggi queste usanze, cose legate a una vita contadina e a un mondo più semplice e più povero che in Occidente non conosciamo più, sono scomparse, e i cristiani scoprono di non essere più «padroni» del Natale, una festa ormai strappata loro di mano. Tuttavia sta proprio a loro, con la loro «differenza» nel vivere il Natale, essere i custodi del senso profondo della festa e i testimoni della speranza che celebrano: «l’uomo è un animale chiamato a diventare Dio». Si, attraverso un’umanizzazione della loro vita, della vita con gli altri, della vita nella polis, i cristiani saranno più fedeli che mai alla loro identità mentre coloro che cristiani non sono potranno solo beneficiare del servizio per una migliore qualità della vita offerto dai cristiani. Non si celebra la venuta di Cristo nella carne contrapponendosi agli altri, mostrandosi angosciati e cinici e limitandosi a demonizzare quanti non vivono il Natale da cristiani perché non hanno la fede. «Non di tutti è la fede», ci ricorda sempre l’apostolo Paolo, ma tra tutti è possibile tessere cammini di pace, di giustizia, di perdono, di ascolto reciproco.
Tratto da:Enzo Bianchi,Il Pane di Ieri,Einaudi,Torino,2008,pp.79-86.
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