Verso un “neo-cristianesimo? La sfida di Vito Mancuso e la risposta di Giuseppe Savagnone
Il recente libro di Vito Mancuso,
Gesù e Cristo (Garzanti, 2025), ha riacceso un vecchio ma sempre attuale dibattito: chi è veramente Gesù di Nazareth e chi è Cristo, il Figlio di Dio della fede? Due nomi per la stessa persona o due realtà profondamente diverse?
Giuseppe Savagnone, in un articolo su
Settimana News, prende spunto dalle tesi del teologo milanese per porsi una domanda che attraversa la teologia contemporanea:
è possibile un cristianesimo senza il Cristo della fede, un nuovo “neo-cristianesimo” fondato sull’etica invece che sulla redenzione?
Gesù storico e Cristo della fede
Per Mancuso, la famosa "e" del titolo — Gesù e Cristo — non unisce, ma distingue. Da un lato c’è Gesù, l’ebreo di Nazareth, profeta apocalittico e predicatore del Regno; dall’altro Cristo, figura elaborata dalla fede dei discepoli, figlio unigenito di Dio, fondamento della religione cristiana.
La sua proposta teologica mira a riconciliare la coscienza moderna, sempre più lontana dalle categorie dogmatiche tradizionali, con un cristianesimo “accettabile”, fondato sulla “salvezza etica”: non più la croce come sacrificio redentivo, ma la vita buona come via di liberazione. In questa visione, Gesù è il testimone di una “logica eterna” dell’amore e della giustizia universale, che attraversa tutte le religioni e le culture spirituali dell’umanità.
Il rischio della dissoluzione
Savagnone, tuttavia, coglie in questa prospettiva un punto problematico. Eliminare la divinità di Gesù – e più ancora la trascendenza di Dio – significa svuotare il cristianesimo della sua novità radicale: l’annuncio che Dio stesso è entrato nella storia, si è fatto uomo, ed ha offerto la propria vita per la redenzione dell’umanità.
Senza questa “scandalosa” incarnazione, quello di Mancuso rischia di essere un umanesimo spirituale più che un cristianesimo. Gesù finirebbe per essere accostato ai
grandi maestri religiosi come Buddha o Confucio, in cui si manifesta una divinità impersonale, diffusa, “qualcosa” più che “Qualcuno”.
Il post-teismo come sfondo
A questa linea si collega anche il cosiddetto post-teismo, rappresentato da autori come Paolo Gamberini, che propongono di superare la separazione tra Dio e mondo. Se il mondo è “da Dio” ed è un’espressione della sua stessa essenza, l’incarnazione non avviene solo in Gesù ma in tutto il creato. In questa visione cosmica, Cristo non è più un evento unico, ma il simbolo dell’unità tra il divino e l’umano.
Savagnone riconosce la generosità di queste ricerche teologiche, animate dal desiderio di rendere viva e attuale la fede nell’epoca della secolarizzazione. Ma si chiede se, una volta tolta la distanza tra Dio e il mondo, resti ancora spazio per il cristianesimo come buona notizia di un Dio che ama liberamente, sceglie di farsi uomo e dona se stesso.
La rivoluzione dell’Incarnazione
Il nodo, per Savagnone, è tutto qui: ciò che ha sempre reso il Vangelo radicale e sorprendente è l’annuncio che l’Infinito si è fatto finito, che il Figlio di Dio ha condiviso fino in fondo la sorte dell’uomo, attraversando anche la morte.
Un “neo-cristianesimo” che rinunci a questo mistero per renderlo più accettabile ai gusti moderni otterrebbe forse un messaggio più rassicurante, ma al prezzo di perdere la forza rivoluzionaria che duemila anni fa ha sconvolto il mondo — e che continua ancora oggi a interpellare ogni coscienza.